Viaggiare significa portarsi addosso un pezzetto di mondo ad ogni ritorno; e lasciare in cambio un pezzetto di sé.
In un mondo in cui viaggiare diventa sempre più comune, milioni di italiani, cinesi, terrestri, lasciano tracce di sé appese ai lampioni, lastricate sulle strade, affisse ai palazzi, attaccate alle persone. Il mondo diventa sempre più un posto solo: la nostra generazione ha una fortuna che mai prima, e mai dopo potrà più verificarsi… è uno spreco restare in salotto a guardare la tv.

Dal Giappone parto tenendomi addosso un modo nuovo di pensare all’ospitalità, il puzzo di pesce di Tskiji, qualche ideogramma, un kimono per Deb (che ancora non lo sa), e la consapevolezza che una vita non è abbastanza per un mondo così meraviglioso.
E poi mi porto via qualcuno dei milioni di pensieri che mi hanno attraversato, ipnotizzato e ammaliato, mentre lascio qui -mio malgrado- tutti quelli destinati all’oblio: quelli che non incrocerò mai più.

In cambio lascio poco. Provo un certo imbarazzo, ma nonostante le tante speranze sono consapevole che è così.
Però ho una storia… una storia che merita qualche riga.

Il fine settimana -e in particolare il sabato sera, come dicevo qualche giorno fa- un sacco di ragazzi e ragazze vestono gli abiti tradizionali giapponesi: yukata, happi e jinbei; tutta roba che ai nostri occhi non è affatto dissimile dai kimono, ma la differenza -credetemi sulla parola- c’è. Naturalmente esistono centinaia di negozi che vendono questo genere di articoli, e spesso attraggono anche parecchi turisti in cerca di souvenir da indossare tra le mura domestiche.

L’immagine di un ragazzo occidentale che va in giro per Tokyo il sabato sera vestendo un jinbei e un jeans, è una cosa a cui Tokyo non è abituata, e forse a cui non era preparata. La Tokyo vera ha reagito unanimamente bene: mi sorridevano, chiedevano dove avevo comprato l’abito, si prendevano la licenza di fare due chiacchiere… cosa che per un giapponese non è davvero da poco!
Tra i turisti ho incontrato un sacco di sguardi di approvazione, chiacchiere e pacche sulle spalle; ed ho sentito qualche voce malevola alle mie spalle… a un certo punto ho quasi pensato che mi stessi cacciando in inutili grane, ma sbagliavo.
Per farla breve il mio jinbei è diventato così popolare da farmi sperare di avere innescato una piccola reazione a catena, un virus benevolo: mi piace pensare che per il prossimo sabato alcuni di quelli con cui ho scambiato qualche parola si saranno procurati il loro jinbei per turisti, e che andranno anche loro a testa alta in giro per la città con lo sguardo pieno della certezza di essere cittadini del mondo.

È presuntuoso, lo so, ma sono contento di avere avuto la sfacciataggine di indossare quel capo.

Ora sono in aeroporto, scrivo su una tastiera giapponese piena di hiragana o katakana… se solo capissi la differenza! Sono felice di tornare a casa col mio piccolo bagaglio nipponico, ma ho già nel cuore la voglia di tornare.

Ah… prima di chiudere… mi porto via un’altra grande cosa dal giappone: il Kanji Λ.
Significa “gente”, e l’etimologia grafica del termine è basata sull’idea che le persone debbano supportarsi a vicenda.

Arigato gozaimashita. Sayonara Tokyo…